Identità Sufi

ROMA, 27 ottobre 2015


DIM Dialogo Interreligioso Monastico
Commissione Italiana
Monaci di Allah: il guerriero e l’amante
Imam Yahya Pallavicini

Monaci di Allah: il guerriero e l’amante
Facendo seguito al nostro precedente intervento “Essere Sufi” presentato in occasione della riunione annuale del DIM al monastero Camaldolese di Fonte Avellana nel 2013 sul tema “Chi è il monaco?” sono lieto di riprendere il nostro dialogo con un approfondimento su alcuni caratteri o aspetti identitari e modelli di espressione vissuti all’interno degli ordini contemplativi nell’Islam.
Prenderemo spunto da due maestri, il poeta Jalal al-din Rumi (1207-1273) e, soprattutto, l’emiro Abd al-Qadir al-Jazairi (1808-1883), un monaco dell’amore e un monaco guerriero. Sei secoli di storia separano la vita del poeta dalla vita dell’emiro. Il primo maestro nasce in Tajikistan e diventa il fondatore in Turchia dell’ordine dei Mevlevi durante il califfato Abbaside mentre il secondo maestro nasce in Algeria durante il califfato ottomano ed è considerato il fondatore della Nazione algerina pur essendo deceduto in esilio a Damasco. La distanza rilevante di storia e di geografia tra questi due monaci di Allah non toglie nulla alla riflessione sull’ideale monastico nell’Islam. Al contrario, la nostra intenzione è proprio quella di partire da contesti e caratteristiche molto differenti per agevolare la descrizione di particolari declinazioni di percorsi di conoscenza spirituale. La relazione che entrambi hanno avuto con l’Occidente e in particolar modo con il Cristianesimo ci permette forse di valorizzare alcune corrispondenze utili anche per l’attualità della testimonianza del tasawwuf, l’esoterismo islamico o sufismo, la dimensione interiore dell’Islam. Mettere a confronto due stili, metodi, caratteri di monaci, maestri e santi di ordini contemplativi vissuti in epoche e regioni differenti del mondo può sembrare complesso. Ogni monaco appartiene anche alla specificità del suo tempo, del suo spazio e del suo “monastero”, è la condizione che i maestri del Tasawwuf chiamano “essere figli dell’istante” e intendono l’istante di questo mondo ricollegato e riassorbito con l’eterno dell’Altro mondo. Possiamo quindi affermare che essere poeta o emiro, essere viaggiatore o esule, rappresenta una funzione e un velo del monaco, la veste che lo accompagna nella sua Via, nella sua obbedienza alle regole del suo ordine contemplativo ma non rappresenta la sua essenza di sufi, di “arif bi-Allah”, conoscitore di Allah. Il carattere e la personalità del monaco possono variare e assumere trasformazioni e maturazioni in funzione delle esigenze e delle prove spirituali che Dio ispira a coloro che hanno risposto alla Sua chiamata.

Per qualcuno il monastero può essere l’angolo di una camera nella quale si ritira e dalla quale insegna e pratica la ritualità dell’invocazione e dell’adorazione interiore, per altri il monastero può essere una funzione pubblica o il mondo intero. Ciò che importa sono le stazioni di permanenza spirituale, i gradi della vittoria e della vicinanza alla Identità divina nei Suoi svelamenti progressivi. Rispetto a queste stazioni, il monaco di Allah è costretto a riconoscere i gradi degli attributi di Dio, passando da un livello superficiale dell’Amato ad un livello intimo dell’Amato e progressivamente intuire e approfondire altri aspetti utili al suo progresso spirituale fino alla stazione ultima, quella dell’Uomo Universale che comprende tutti gli aspetti e tutte le stazioni.

Dunque l’identità del monaco nell’islam o meglio dell’iniziato alla disciplina della contemplazione integrale è la veste esteriore che egli assume per estinguere se stesso nel servizio coerente con la dottrina del suo ordine e con le indicazioni del suo maestro superiore. Tale identità può sintetizzare la natura della personalità e la specificità dello spazio e del tempo per rinnovare e riorientare il tempo, lo spazio e la personalità in funzione del Signore di ogni tempo, spazio e persona, sublimando alcune caratteristiche e situazioni e indirizzandole alla loro origine metafisica.
A questa identità, che chiameremo “funzionale o ascendente” se ne aggiunge anche un’altra che alcuni maestri chiamano “realizzazione discendente o di irradiamento” e riguarda la facoltà che hanno alcuni discepoli e maestri nell’itinerario spirituale di “testimoniare” la ricaduta delle intuizioni intellettuali e delle conoscenze spirituali per l’economia spirituale dei propri compagni e “ispirare” all’umanità contemporanea il beneficio del ricordo di Dio.

La vera utilità nella comunicazione con l’identità di un sufi dipende in parte dall’intenzione dell’interlocutore e dalla sua disponibilità a scoprire un’interpretazione della dinamica spirituale: possiamo scoprire l’eccellenza di un emiro o di un poeta, venire ispirati nell’amore e nell’integrità e cogliere i benefici di un’attrazione e di una ridistribuzione della grazia di Dio, il Signore dei sufi e di ogni monaco e credente e creatura.

Vita dell’emiro Abd al-Qadir.
Emiro tra i santi e santo tra i principi. Dopo poco più di due secoli dalla nascita dell’emiro Abd alQadir sorprende constatare quanto alcuni pregiudizi tra gli occidentali e alcune decadenze tra gli orientali siano ancora rimasti invariati se non addirittura peggiorati e diffusi. Gli occidentali hanno saputo prima temere, poi combattere, poi criticare, poi censurare, infine amare la personalità dell’emiro ma in pochi hanno saputo riconoscere, andando oltre alla complessità della sua personalità e della storia, la profondità della sua visione e intenzione di conoscenza e obbedienza spirituale. Si giunge alla medesima conclusione se analizziamo la miopia degli arabi delle tribù algerine, dei funzionari turchi del califfato ottomano in declino, della massa dei musulmani siriani che vivevano a Damasco.
Una buona minoranza di ebrei, cristiani e musulmani, occidentali e orientali seppero, invece, seguirlo e cogliere da questo monaco guerriero, da questo emiro contemplativo, la maestria eccezionale di una “armonia degli opposti” dove interiore ed esteriore, guerra e pace, patria e esilio, povertà e ricchezza, calunnia e gloria, rappresentavano forme, aspetti, alternanze di servizio e di obbedienza per una “giusta causa” che, pur partecipando della dinamica della storia di questo mondo, ritrasmette la vera identità di un monaco di Allah, la Via di un ordine dell’esoterismo islamico verso l’estinzione nella contemplazione e nell’azione.

Ogni giorno, l’emiro Abd al-Qadir, sotto la tenda nel deserto, durante un combattimento o una trattativa di pace, nei quartieri di Orano, Tolosa, Istanbul, Damasco, Makkah, in nave, in esilio, nelle varie residenze, in condizione di ospite o prigioniero, ogni giorno, l’emiro Abd al-Qadir riuniva i suoi discepoli e alcuni amici nella meditazione sulla Rivelazione. L’approfondimento sulle sottigliezze del linguaggio divino, la penetrazione del significato profondo dei segni di Dio nello spazio, nel tempo e nel movimento, la ricerca di sintonia con l’insegnamento dei maestri dei vari ordini interiori dell’islam erano di supporto all’emiro e ai suoi compagni per intuire le corrispondenze utili per vincere il combattimento esteriore dell’istante.

In queste preghiere intime e concertazioni riservate, il monaco musulmano trae la forza di una verifica superiore che eleva il piano delle contingenze e dei condizionamenti pubblici per realizzare una nuova stazione di concentrazione e conoscenza di Dio. Oltre al velo o all’abito del monaco, dell’emiro, del guerriero, del comandante, del difensore, del maestro, c’è forse da poter riconoscere la presenza del santo che “teofanicamente” manifesta il santo ricordo della presenza di Dio. L’educazione di un giovane sufi alla gestione della vita e alla conoscenza del mondo.

L’emiro Abd al-Qadir al-Jazairi venne educato da suo padre Muhyiddin secondo le regole dell’ordine del santo patrono shaykh Abd al-Qadir al-Jilani. L’ordine della Qadiriyyah aveva infatti sviluppato il suo irradiamento spirituale nel XI secolo dalla Persia fino al Medio Oriente dove il padre di Muhyiddin, shaykh Mustafa, aveva ricevuto l’iniziazione a questa Via contemplativa. La sua dottrina, basata sulla Via della pratica dell’obbedienza, dell’umiltà e della carità, accomunava i sufi ai monaci e ai sacerdoti cristiani per i quali il Corano riserva una condizione di particolare rispetto.

La dottrina della confraternita Qadiriyyah predicava un messaggio semplice e universale che attirava la vocazione di musulmani ma anche la curiosità di ebrei e cristiani. Era un dovere per i musulmani dell’ordine pregare e operare per il bene di tutta l’umanità e non solo per i membri della propria comunità e famiglia spirituale. Il fondatore aveva insegnato a rispettare la figura di Gesù, caratterizzato dal dono di una bontà divina e dal potere dell’amore che lo distingueva dagli altri profeti.
Per realizzare la scienza sacra della conoscenza spirituale, il padre e maestro Muhyiddin aveva insegnato al figlio e discepolo Abd al-Qadir le regole della Via verso l’Amato:
Se ti viene chiesto cosa è la Via, dì: essa è Conoscenza, purezza di cuore e di corpo, pazienza e nobili origini.
Se ti viene chiesto quali sono le regole e la disciplina della Via, dì: non seguire le parole vane, ricordare sempre i Nomi di Dio, avere disprezzo per i beni di questo mondo, avere timore di Dio.
Se ti viene chiesto da quali segni si riconoscono le genti della Via, dì: dalle loro opere pie, dalla discrezione nel linguaggio, dalla gentilezza, la compassione e l’assenza di comportamenti scorretti.

Gli insegnamenti paterni sulla Via contemplativa si accompagnavano nell’educazione del giovane Abd al-Qadir a quelli di Ahmad bin Tahar, il giudice di Arzew, un villaggio vicino al porto di Orano a soli due giorni di viaggio a cavallo da Guetna, la loro città di residenza. Sotto la tutela del giudice Bin Tahar gli insegnamenti di matematica, geografia, astronomia, filosofia e storia si aggiunsero ai fondamenti morali e religiosi ritrasmessi dai genitori. Successivamente, il giovane Abd al-Qadir venne istruito in medicina, farmacologia e veterinaria mentre il giudice di Arzew gli faceva leggere le opere di Aristotele, Platone, Averroè, Avicenna, Al-Ghazali, Ibn Taimiyya e Ibn Khaldun.

Tale metodo di educazione tradizionale era diffuso tra i figli di famiglie con la responsabilità di custodire e gestire il patrimonio intellettuale di un ordine contemplativo, secondo le tradizioni del Profeta “l’inchiostro dei sapienti è meglio del sangue dei martiri” oppure “avere sapienza e non usarla e come essere un asino pieno di libri”. I discendenti delle famiglie rese nobili dalla dignità di una funzione spirituale hanno, pertanto, l’obbligo di essere ben istruiti e saggi, in quanto la religione e la conoscenza sono inseparabili.

Persino le cronache dei colonizzatori francesi descrivevano la società algerina del tempo caratterizzata da due livelli di aristocrazia: i nobili della religione, i marabout, e i nobili della spada, i douad. Questi ultimi erano cacciatori di nemici mentre i marabout praticavano la disciplina della caccia per formarsi nelle quattro qualità della vita: intelligenza, pazienza, determinazione e coraggio. Proprio il coraggio era considerato una fondamentale virtù accanto all’onestà intellettuale, il senso di giustizia e il controllo di se stessi.

Il padre e maestro Muhyiddin pretendeva che suo figlio Abd al-Qadir imparasse la recitazione della Rivelazione di Dio nel Sacro Corano con profonda attenzione e trasparenza. “Devi imparare a leggere il Corano seguendo la mimica del respiro divino che Dio ha ispirato nell’uomo!”. Il Corano è la Parola perfetta di Dio, gli raccomandava il padre, ma deve essere recitato alla perfezione per cogliere l’influenza spirituale che disciplina il caos. “L’uomo è circondato dall’alternanza degli stati e dalla casualità delle decisioni. Senza il sostegno della ritualità, il mondo diventa instabile e disordinato”.
“Ricordati, proseguiva il padre e maestro Muhyiddin, le prove ti vengono mandate per rafforzare la tua sensibilità. Invece di allontanarti da Lui o di pretendere persino di giudicarLo secondo il tuo parametro di giudizio, devi sapere che Dio, che è la Causa Prima di ogni cosa, permette alle Sue creature di perdersi tra le cause seconde. Egli ha scelto così di concedere ai Suoi vicari sulla terra il libero arbitrio”.

Mentre il padre guidava il figlio al pellegrinaggio alla città santa di Makkah, gli insegnava la natura delle varie confraternite spirituali, le loro storie, le loro catene di ritrasmissione e i loro santi patroni e, allo stesso modo, gli illustrava le varie comunità religiose:
“Abramo era musulmano”.
“Ma come faceva ad essere musulmano prima ancora dell’Islam?”, chiedeva il giovane figlio Abd al-Qadir.
“Perché Abramo aveva realizzato la stazione della conversione integrale a Dio. Un musulmano è chi si converte a Dio”, rispose il padre Muhyiddin.
“Anche gli ebrei e i cristiani sono musulmani?”.
“Certo, quando essi praticano con sincerità la volontà di Dio. Come in cielo, così in terra è una parte della preghiera che il Profeta Gesù ha ordinato ai cristiani”.

Risalendo il Nilo dopo il pellegrinaggio e andando oltre la città del Cairo, Muhyiddin e Abd alQadir seguirono le orme del Profeta Mosè nel Monte Sinai dove trovarono ospitalità presso il monastero di Santa Caterina. Per ore dialogarono con i monaci sull’Unità di Dio, sul mistero della trinità e sulle differenze delle Sue Vie. Abd al-Qadir imparò che Gesù era per i cristiani Rivelazione diretta, proprio come il Corano per i musulmani.

Arrivati a Damasco, il padre organizzò per il figlio di studiare presso il maestro di un altro ordine contemplativo, la Tariqat Naqshabandiyyah dell’illuminato shaykh Khalid. In questa stessa città si concludeva il lungo pellegrinaggio del padre e del figlio, del maestro Muhyiddin e del discepolo Abd al-Qadir, con la visita alla tomba del santo fondatore dell’ordine della Qadiriyyah, lo shaykh Abd al-Qadir al-Jilani deceduto in questa città nel 1166. Dopo questa visita e pellegrinaggio il padre Muhyiddin autorizzò il figlio Abd al-Qadir a prendere il bastone del comando e a parlare in nome della loro Via spirituale.

Pochi anni dopo, di ritorno in Algeria, questa successione spirituale tra maestro e discepolo avrebbe trovato anche una conseguenza esteriore più ampia di quella relativa all’ordine interiore. Infatti, nel 1832, le autorità delle varie tribù musulmane in Algeria chiesero a Muhyiddin di diventare il loro sultano, il polo centrale che riuniva le sette famiglie della regione in difesa dalla colonizzazione armata dei francesi. Il suo primo atto formale fu di abdicare in favore del figlio Abd al-Qadir che sarebbe diventato il giovane emiro, il comandante dei credenti, rispettato dagli anziani arabi, dai capi delle famiglie ebree a Mascara e dalle comunità cristiane presenti nella regione. All’età di 25 anni, Abd al-Qadir sintetizzava una serie di caratteristiche: figlio devoto, pio sapiente, predicatore, combattente, diplomatico, amministratore e giudice ma, soprattutto, autorità spirituale. Lo stendardo di questo asceta e monaco musulmano era colorato dalla virtù dell’obbedienza e del servizio per Dio.

La jihad del monaco.
L’emiro Abd al-Qadir ebbe l’intuizione di farsi sostenere nella sua funzione pubblica da una corte di consiglieri tra i quali spiccavano anche alcuni mediatori e commercianti ebrei: Mordecai Amar, Michael Bushnach e Judas Ben Duran. La sua sensibilità ecumenica trovava una naturale corrispondenza con la gestione del potere e dell’unità del popolo nella difesa dall’invasione dei colonizzatori francesi.

La capitale Algeri nel 1830 era un mosaico di cinquanta quartieri etnici differenti con trentatre torri che si innalzavano tra forni, fabbriche di ceramiche, tintori di pelli, tessitori per reti da pesca, uffici di polizia e istituti di credito. C’erano 159 moschee, 4 sinagoghe per oltre 5000 ebrei e una chiesa per i cristiani residenti. La religione, più di ogni altra dimensione, riuniva la complessa tela della società di etnie, tribù e commercianti.

Nel 1835, dopo soli 4 anni di “civilizzazione” francese, il litorale era stato trasformato in una “plaza” dove negozi al dettaglio esponevano articoli europei fuori moda. Le moschee erano state trasformate in chiese e l’urbanistica era stata adattata ad accogliere strade dai nomi incomprensibili: rue Annibal, rue du Chat, rue Sidney Smith, rue du Lotophages, rue Sophonisba, rue Belisaire. Nuovi alberghi e Grand Cafés erano i centri di ritrovo.

Ma oltre al velo di questa apparenza e ostentazione identitaria c’era una guerra che veniva combattuta tra estremismi contrapposti: coloro che volevano cacciare gli infedeli e coloro che volevano conquistare i selvaggi. L’emiro Abd al-Qadir era riuscito a mantenere una rilevante unità tra il suo popolo e delle buone relazioni diplomatiche con i generali e i governatori francesi e, soprattutto, era riuscito a garantirsi una dignità e un’autonomia di gestione pur dovendo subire le critiche di coloro che gli rimproveravano di “aver fatto la pace con i cristiani e di aver tradito la jihad”.

Parallelamente, alcune necessità di governo e di politica esteriore, gli avevano procurato imbarazzi con i rappresentanti di altri ordini contemplativi. Oltre all’opposizione del fratello Mustafa e dello zio Abu Talib, il derviscio egiziano Haj Musa stava provocando la nobile confraternita della Darqawiyyah a combatterlo coerentemente con il loro carattere di “indipendenti”, termine che gli stessi governatori turchi avevano attribuito ai membri di questo ordine per la loro imponderabilità e imprevedibilità rispetto agli affari di questo mondo.

L’emiro ebbe inoltre l’infelice idea di acconsentire alle profferte di alleanza con Haj Issa e assediare, senza successo, l’oasi e il centro spirituale della confraternita della Tijaniyyah a Ain Mahdi, al confine del deserto del Sahara. Significativo il messaggio inviato all’ambasciatore dell’emiro dal maestro Sidi Muhammad al-Tijani: “Riferisci al tuo maestro che io non sono né un nemico né un ribelle: sono pronto a riconoscere insieme alla mia comunità l’autorità del sultano ma come autorità di una confraternita spirituale. Io non mi occupo di questioni di questo mondo e spero di evitare qualsiasi contatto con i principi investiti del potere temporale. I miei antenati hanno sofferto troppo a causa loro. Le mie intenzioni sono pacifiche ma se il sultano vuole assediarmi, dovrà abbattere le mia mura e trafiggere con le spade i petti dei miei fratelli”.

In questi anni intensi e difficili, di combattimenti e trattative diplomatiche, Abd al-Qadir aveva perso i contatti con sua moglie Khedira e suo figlio Muhammad e, dopo aver accettato la sua responsabilità di emiro aveva persino offerto a sua moglie lo scioglimento del legame matrimoniale che era avvenuto in tempi nei quali nessuno dei due poteva lontanamente immaginare il destino di guerriero e di monaco che avrebbe dovuto vivere. Ma sua moglie gli rimase sempre fedele e di sostegno nella missione declinando l’offerta di scioglimento coniugale.

Persino il generale francese Bugeaud descrive, nel suo rapporto al Conte Molé, il suo incontro con Abd al-Qadir come quello con un monaco: “i suoi abiti non sono diversi da quelli indossati dalla maggior parte degli arabi comuni. Ha il viso pallido e assomiglia ai ritratti nei quali è raffigurato Gesù Cristo. I suoi occhi sono scuri, la fronte prominente e ha una bocca larga con denti bianchi. La sua fisionomia integrale sembra quella di un monaco. Fatta eccezione per il primo saluto, tiene il suo sguardo basso. I suoi vestiti sono polverosi e consumati. Manifesta chiaramente rigore e semplicità”.

L’esilio dell’emiro.
Anche gli abitanti di Pau, luogo dove avrebbe trascorso parte del suo esilio forzato in Francia dal 1847 al 1852, erano curiosi di scorgere “il famoso emiro che vestiva come un monaco trappista nel suo essenziale mantello bianco”. Furono anni particolarmente difficili questi per l’emiro Abd alQadir e il suo seguito di familiari e discepoli in esilio in Francia, dove il Governo dell’imperatore non riusciva a mantenere la promessa di salvacondotto verso il Medio Oriente per il timore che potesse nuovamente organizzare una resistenza araba contro il dominio francese. Pregiudizi popolari e trame politiche sembravano prevalere sull’identità e le sorti dell’emiro, “il mostro del deserto”, “il sacrilegio del castello di Enrico IV da parte dei selvaggi e dei barbari”, ma lentamente, mentre alcuni compagni di viaggio e parenti dell’emiro morivano e si ammalavano incapaci di adattarsi al clima invernale, al gelo dei comportamenti occidentali, all’artificio e all’ingiustizia di questo isolamento, Abd al-Qadir seppe fare leva sulla parte buona dell’anima dei suoi interlocutori, visitatori e spie francesi.

“L’ambizione spesso rende ciechi i cuori delle persone, ripeteva l’emiro Abd al-Qadir, e si impediscono di credere nella sincerità altrui”. In questo soggiorno lontano dalla sua terra d’origine, l’emiro si ricordò del Profeta Abramo, il padre del monoteismo che “non è un ebreo, non è un cristiano, ma un puro adoratore, integralmente convertito a Dio”. Scrisse di avere avuto una visione di Abramo, “l’amico intimo, l’amato da Dio”, in sua compagnia. Tra i figli di Abramo, lui era quello che più gli assomigliava, che aveva realizzato una particolare fedeltà alla sua eredità. Questa benedizione di Abramo consisteva in una missione da compiere: essere un testimone dell’Unico Dio, il Misericordioso, il Paziente, l’Amato per tutta l’umanità. Questo era stato anche il messaggio dello shaykh Abd al-Qadir al-Jilani, il santo di Baghdad e fondatore dell’ordine sufi della Qadiriyyah di cui era rappresentante su autorizzazione di suo padre, shaykh Muhyiddin.

In questa prospettiva, l’esule Abd al-Qadir desiderava essere d’aiuto alla Francia, che vedeva crescere come potenza internazionale nel mondo islamico, a meglio comprendere l’Islam e riscoprire i propri bisogni spirituali. Per “Francia” l’emiro intendeva tutto il mondo occidentale che vedeva arricchito nella gestione dei beni materiali ma fragile nella coerenza con la realtà dello spirito, dove risiede la conoscenza eterna.

Un giorno disse al barone e generale Estève Boissonet, suo guardiano durante la detenzione a Amboise: “I vostri scienziati hanno sviluppato doti particolari nelle scienze applicate. Ma dove è rimasto lo spirito della riflessione metafisica che permetterà loro di andare al di là dei confini limitati della realtà materiale per acquisire quella conoscenza utile ai bisogni dell’animo umano?”.
Damasco. La fine del sufi e l’incontro spirituale con Ibn ‘Arabi.

Quando l’emiro Abd al-Qadir arrivò finalmente nel 1855 a Damasco, per trascorrere in questa città l’ultima parte della sua vita, riuscì a sorprendere i dignitari turchi che gli erano venuti incontro per dargli il benvenuto e per scortarlo nell’ingresso alla città. La sua prima richiesta non fu di incontrare il governatore o di visitare la moschea degli Umayyadi ma di andare a visitare la tomba del maestro Ibn ‘Arabi, il più grande dei maestri del Tasawwuf e di poter occupare la sua stessa residenza nel quartiere Armara.

Ibn ‘Arabi era morto a Damasco nel 1240 colpito dalla follia di un imam corrotto. La sua tomba venne onorata successivamente dal sultano ottomano Selim I il Ponderato. Famosa una sua poesia d’amore:
Il mio cuore è capace di contenere ogni forma,
è pascolo per le gazzelle e un monastero per i monaci,
un tempio per gli idoli e la Ka’aba per i pellegrini.
È la tavola della Legge ed è il libro del Corano.
Io testimonio la religione dell’amore, dovunque sia la destinazione delle carovane.
L’amore è la mia legge e la mia fede.

In virtù del principio dell’Onnipresenza divina, Ibn ‘Arabi trae la conseguenza che non c’è spazio privo di sacralità e santità. Egli è con te ovunque tu sia. “La Perfezione – scrive il sommo dei maestri – non viene dal ritiro ma dalla vita in comune nella società. Gli eletti non rifuggono la propria condizione, al contrario, è la loro condizione che fugge da loro”. Il ritiro spirituale, insegnava, è “come un ospedale per i malati di cuore, utile per un trattamento temporaneo. Ma la perfezione si realizza nella vita in comune”. “Il combattimento minore contro il nemico esteriore non è una distrazione dal combattimento maggiore contro il nemico interiore. Le vite degli eletti sono unite tra gli affari di questo mondo e quelli per l’eternità.” L’emiro Abd al-Qadir condivideva la stessa prospettiva ma furono in pochi tra i diplomatici occidentali a riconoscerla.

Durante il suo esilio in Francia, Abd al-Qadir aveva avuto modo di riflettere e scrivere: “Il nostro Dio e il Dio delle altre comunità differenti dalla nostra sono in realtà Un Solo Dio. Egli si Rivela ai musulmani prescindendo dalle forme, ai cristiani nella persona di Gesù Cristo e nei monaci. Egli si rivela persino ai pagani come oggetti. Nessun adoratore di qualcosa di definito adora la cosa in quanto tale. Ciò che adora è l’epifania di Dio”.

Incontrare Ibn ‘Arabi apre alla scoperta di Abd al-Qadir. Il maestro andaluso scrive nella sua opera che ogni creatura custodisce una città interiore e che questa deve essere ben gestita per trasmettere ordine nel mondo esteriore. “Proprio come l’uomo è centrale nell’universo in quanto vicario di Dio sulla terra, come microcosmo del macrocosmo, allo stesso modo, l’anima è centrale nell’essere umano ed è vicario di Dio dentro di noi”. L’anima è increata e rappresenta una estensione diretta di Dio, il luogo della Sua influenza dove guida il Suo servo alla Verità. “Non ho mosso gli eventi, sono gli eventi che mi hanno mosso”. “Cristiani, venite con me! Io sono Abd al-Qadir, figlio di Muhyiddin, l’algerino. Fidatevi di me, io vi proteggerò.”. Per molte ore, i compagni algerini dell’emiro scortarono i cristiani esitanti alla fortezza e residenza di Abd al-Qadir. I due piani della sua casa e il cortile hanno dato rifugio a migliaia di vittime disperate dalla improvvisa e irrazionale ondata di persecuzioni e di ritorsioni nei confronti dei cristiani da parte dei musulmani siriani. “Consegnaci i cristiani!”, urlò la folla inferocita ammassata davanti alla porta della sua residenza.
La improvvisa apparizione dell’emiro provocò un momento di silenzio.
Abd al-Qadir si rivolse ai musulmani di Damasco: “Fratelli, il vostro comportamento viola le leggi di Dio: cosa vi fa credere di avere il diritto di girare e uccidere persone innocenti? Siete imbestialiti a tal punto da assassinare donne e bambini? Non ricordate la parola di Dio che dice chiunque uccide un uomo che non ha commesso violenza e non ha creato disordine sulla terra è come se avesse ucciso l’umanità?”.
“Consegnaci i cristiani! Noi vogliamo i cristiani!” rispose la folla assiepata davanti all’ingresso della casa dell’emiro algerino.
Abd al-Qadir rispose: “Dio ha decretato che non c’è coercizione nella religione!”.
“O santo guerriero!”, gridò uno dei capi della rivolta, “non vogliamo i tuoi consigli. Perché ti occupi dei nostri affari? Tu hai ucciso dei cristiani in passato! Perché ti opponi alla nostra vendetta sulle loro provocazioni? Consegnaci quelli che stai proteggendo nella tua casa o sarai punito come loro.”
“Siete folli! I cristiani che ho combattuto erano invasori che hanno usurpato la mia terra! Se non temete il vostro agire contro la volontà di Dio, temete almeno le conseguenze e le punizioni che riceverete dagli uomini per i vostri crimini, perché saranno tremendi, vi prometto! Se non mi date ascolto, allora Dio non vi ha dato la ragione, siete come bestie che seguono solo gli stimoli della vista dell’erba e dell’acqua.”
“Puoi tenere gli ambasciatori. Consegnaci i cristiani!”.
“Finché uno dei miei compagni e guerrieri sarà ancora in piedi, voi non li sfiorerete! I cristiani sono miei ospiti. Voi assassini di donne e bambini, voi figli del peccato, provate solo a prendere uno dei miei ospiti cristiani e imparerete quanto combattono bene i miei compagni.” Poi rivolgendosi ai suoi uomini gridò: “Prendete le mie armi, prendete il mio cavallo. Riprendiamo a combattere per una giusta causa, proprio come quella per la quale abbiamo già combattuto in precedenza.”
E i suoi compagni e discepoli gridarono: “Dio è grande!” brandendo le spade e i fucili.
Davanti alla visione dei veterani dell’emiro, la folla si sciolse scappando via senza evitare di esprimere qualche vile insulto.

L’eco di questa impresa attraverso l’Oceano e venne riportato nel quotidiano New York Times:
“Venti anni fa l’emiro arabo era il nemico della Cristianità, cacciato tra le dune dei suoi monti natii. Oggi, il mondo cristiano si unisce nell’onorare il principe spodestato dell’islam, il più altruista dei cavalieri combattenti, che ha rischiato la vita per salvare i suoi antichi nemici, i suoi conquistatori e i conquistatori del suo popolo e della sua religione, dall’offesa e dalla morte. Per Abd al-Qadir questo è un capitolo di gloria, e di una gloria autentica. Non è di certo comune ricordare nella storia che il guerriero senza compromessi dell’indipendenza Muhammadiana sia diventato il più intrepido guardiano delle vite cristiane e dell’onore cristiano in giorni di decadenza politica della sua gente. Le sconfitte che hanno reso Algeri alla Francia sono state nobilmente ricompensate”.
Dio è più grande. Testimoniare la Verità dell’islam.

Ma perché l’emiro Abd al-Qadir si era comportato così? Alcuni si chiedevano stupiti come mai il capo emerito della resistenza algerina non avesse sfruttato questa occasione per vendicarsi delle sofferenze che la Francia aveva causato al suo popolo e alla sua terra. Altri pensarono che fosse diventato più francese che arabo. Le parole stesse dell’emiro Abd al-Qadir ci aiutano a riconoscere il carattere della sua personalità e il motivo della sua azione: “Facevo il mio dovere nel salvare la vita di innocenti, era un mio sacro dovere. Sono stato solo uno strumento, la lode appartiene a Dio che mi ha guidato”. Successivamente, in una lettera inviata al vescovo Louis-Antoine Pavy, l’emiro scrisse: “Ciò che abbiamo fatto per i cristiani, lo abbiamo fatto per i credenti coerenti nel diritto islamico e nel rispetto della dignità umana. Tutte le creature sono parte della famiglia di Dio e coloro che sono più amati da Dio sono coloro che agiscono per il bene della Sua famiglia. Tutte le religioni del Libro si basano sul principio di adorare Iddio e fare misericordia per le creature. La legge di Muhammad pone la massima importanza sulla compassione e la misericordia e in tutto ciò che ci preserva nella coesione e ci protegge dalle separazioni. Ma coloro che appartenevano alla religione di Muhammad l’hanno corrotta ed è questa la causa della loro condizione di pecore smarrite. Grazie per le vostre preghiere e per gli auguri”.

Secondo le impressioni dell’emiro “l’Islam stava morendo per l’assenza di musulmani”. Per questo occorreva rinnovare la testimonianza di cosa significasse essere un vero musulmano, un autentico fedele convertito integralmente a Dio, un rappresentante della famiglia di Abramo. “Il vizio è condannato in tutte le religioni, essere influenzato dal vizio è come inghiottire del veleno che contamina tutto il corpo. Si pensi a quanto sono rare le persone che agiscono come campioni di Verità mentre vediamo gente ignorante che si inventa che l’Islam ha a che fare con intransigenza, durezza, eccessi e barbarie, allora è giunta l’ora di ripetere queste parole: la pazienza appartiene a Dio, riponiamo la nostra fede in Dio”.
L’Islam era l’unica bussola per l’emiro Abd al-Qadir. Non una interpretazione settaria di islam, ma un islam universale, l’islam della natura primordiale presente in tutte le cose visibili e invisibili che sono sottomesse all’Ordine di Dio. La fede dell’emiro era riposta in un Dio Grande, più grande di ogni fragilità umana e più grande di ogni religione di questo mondo, compreso l’islam. “Ogni credente Lo adora e Lo conosce in alcuni modi e Lo ignora in altri modi”, siamo dunque tutti nell’errore quando equipariamo l’Unità di Dio con la diversità delle creature o la specificità dei nostri modi di adorazione.

Insegnamenti di Jalaluddin Rumi.
Il Sacro Corano, fonte della Rivelazione amorevole di Dio per i musulmani, contiene trentasette termini che si riferiscono in qualche misura all’amore, citiamo solo al-hubb e al-ihbab (l’amore e l’amore intenso) da cui deriva mahabba (l’amore tra le creature). E, soprattutto, al-wudd (l’amore per Dio) e widad che derivano dall’attributo di Dio, al-Wadud, l’Amante, Colui che Ama.
Dio ama, solo Dio ama e non essendoci altro al di fuori di Lui, c’è Solo il Suo Amore. L’amore è dunque la manifestazione di un aspetto di Dio che, nella Rivelazione islamica, si accompagna ad un altro sinonimo e attributo di Dio che è la Sua Misericordia. La Sua Misericordia si accompagna al Suo Amore e il Suo Amore si accompagna alla Sua Misericordia.
Questo doppio livello di comunicazione dell’Amore presso Dio e presso le cose, nel mondo metafisico e nel mondo delle persone care, corrisponde alla pienezza dell’amore che i santi e i maestri musulmani vivono e descrivono nonostante l’incredulità degli scettici che vorrebbero circoscrivere l’amore secondo i limiti della loro interpretazione ristretta del visibile e del materiale:
“Mi stupisce la gente che dice, “Come possono i santi e gli amanti amare il mondo metafisico che non ha forma, né spazio ed è privo di descrizione? Come possono trarne qualche beneficio e sostegno e subirne qualche influsso?” Dopo tutto anche loro ne sono attratti notte e giorno. Prendi ad esempio quest’uomo che trae piacere dall’amore di quest’altra persona: il piacere, la gentilezza, la bontà, la conoscenza, la sintonia, il pensiero, la gioia, i travagli del cuore, egli partecipa di tutte queste cose e tutte queste cose partecipano del mondo che è senza dove. Istante dopo istante egli riceve soddisfazione dai significati di queste cose e ne viene influenzato anche se tutto questo ordine di realtà non gli suscita alcuno stupore. Eppure si stupisce di coloro che sono in relazione d’amore con il mondo senza dove e traggono soddisfazione da questo ricollegamento”.

Spesso si sentono commenti che sottolineano la vicinanza del tema dell’Amore nell’opera di Rumi con la caratteristica del Cristianesimo e di Gesù. Questa valutazione è in parte errata e in parte giusta. È sbagliata, se si riduce il Cristianesimo e la figura di Gesù all’amore inteso da un punto di vista personale e si nega questa qualità spirituale nelle dottrine delle altre religioni e nell’azione di altri Profeti e maestri. Diventa giusta se si sa riconoscere la prospettiva simbolica e universale dell’Amore e di Gesù anche in altri linguaggi, insegnamenti, dottrine. Inoltre, la religione cristiana e musulmana contengono esplicitamente, seppur con riferimenti teologici differenti, la presenza di Gesù e l’Amore di Dio.

Ciò che osiamo proporre è anche la particolare sintonia che si può realizzare tra alcuni cristiani e musulmani che sappiano “aprirsi ed elevarsi” ad una compagnia spirituale nella santità dell’Amore e di Gesù riprendendo antiche facoltà intellettuali che accomunavano i “fedeli d’Amore” con alcune confraternite islamiche sensibili alla spiritualità cristica, ‘isawwi. Si tratta, per tornare a Rumi ed evitare di idealizzarlo come poeta persiano o turco, di saper riconoscere e seguire un maestro di santità, scoprire un’aspirazione, passare dai veli agli svelamenti e vivere in “un mondo senza dove” nel quale si estingue ogni dualità e si realizza l’Unità.
“Un amante è una cosa meravigliosa, egli riceve forza, crescita e vitalità dall’Immagine del suo Amore. Cosa c’è da stupirsi? L’immagine di Layla trasmetteva forza costante a Majnun e divenne il suo nutrimento. Quando l’immagine riflessa dell’amato possiede la potenzialità e la forza effettiva di sviluppare l’amore, perché ti stupisce che l’Immagine del Vero Amato possa irradiare la forza sull’amante, sia nella sua forma esteriore che nel Mondo Invisibile? Ma come possiamo parlare qui di “immaginazione”? Questa è l’essenza autentica della Realtà e non può essere chiamata immaginazione”.

Jalal al-Din Rumi riprende in questo passo del testo Fihi ma fihi la storia d’amore di due personaggi che si chiamano Majnun e Layla. I loro nomi hanno simbolicamente il significato di “il folle” e “la notte” e la loro relazione rappresenta un paradigma poetico e spirituale di una coppia di innamorati. Il loro amore supera il livello razionale e penetra il mistero della notte e permette ai due amanti di scoprire livelli più alti e più profondi della ragione e della notte senza che l’identità di entrambi, della ragione e della notte, di Majnun e di Layla, di un uomo e di una donna che si scambiano Amore possano mai perdere la loro realtà pur sviluppando un processo di estinzione progressiva di alcuni gradi e limiti del loro specifico carattere. Tutto questo, ci ammonisce il maestro, non è immaginazione ma è la forza meravigliosa e straordinaria dell’Amore di Dio.
“Nell’uomo c’è una tale forza di amore, dolore, desiderio che se egli dovesse diventare proprietario di mille mondi, egli non acquisirebbe comunque serenità e pace. Queste persone impegnano la loro vita con ogni sorta di attività, commercio, astuzia, posizione; imparano l’astronomia, la medicina e tante altre cose ma non trovano la pace perché il loro scopo non è stato raggiunto.
Non a caso l’Amato è nominato “la Pace del cuore” proprio perché il cuore trova Pace tramite Lui. Come potrebbe trovare pace attraverso altri?
Tutte queste differenze e finalità sono parte di una scala. I gradini di una scala non sono stazioni dove stabilire la propria residenza ma esistono per permettere di andare oltre. Beato colui che ritorna a se stesso con coscienza interiore! Per lui la lunga via diventa breve e non spreca la sua vita tra i gradini di una scala”.

Jalal al Din Rumi, come ogni maestro dell’esoterismo, guida i suoi discepoli, lettori e interlocutori non solo a vedere al di là delle forme apparenti delle cose o delle finalità relative delle azioni ma anche a non confondere le tappe per la meta. Evitare queste identificazioni o immedesimazioni errate nello spazio e nel tempo è possibile solo mantenendo vivo l’Amore, alimentando l’amore senza confonderlo con l’attrazione o con l’immagine apparente o il velo relativo di Colui che attrae ma cercando di rinnovare costantemente l’aspirazione spirituale.
“Quando vedi amore in te stesso, fai in modo di aumentarne lo sviluppo! Quando vedi in te stesso il tuo capitale – la tua ricerca di Dio – incrementa il valore, pregando e chiedendo! “Nel movimento c’è una benedizione certa”. Se non investi sul tuo capitale, questo ti abbandonerà.
Non sei inferiore alla terra. Gli uomini cambiano la terra muovendola e girandola con le pale e poi produce un raccolto. Quando la abbandonano, si inaridisce. Visto che riconosci che la ricerca è dentro di te, vai e vieni! Non dire, “Che vantaggio c’è nell’andare?”, vai e basta! Il vantaggio si manifesterà.
Quando un uomo va al suo negozio, il vantaggio del suo andare è la manifestazione della necessità. Allora Dio gli dona il suo pane quotidiano. Ma se rimane seduto a casa, ostentando la sua autonomia, il suo pane quotidiano non sarà guadagnato.
Mi domando se questo neonato che piange e riceve il latte da sua madre, se dovesse pensare, “che vantaggio c’è nel piangere? Qual’è la ragione dell’arrivo del latte?”, non riceverebbe il suo latte. Invece il bambino riceve il latte perché piange”.

L’aspirazione spirituale prevede il rispetto operativo di una disciplina pratica che eviti all’amante proprio gli errori dell’immaginazione, della speculazione, della teoria, dell’analisi, del narcisismo inteso come un invaghimento della propria fantasia. L’aspirazione spirituale nell’esoterismo islamico consiste in una via di verificazione costante, dove l’aspirante deve fare lo sforzo di tradurre, interpretare e realizzare fedelmente il segreto dell’amore dell’istante. Questa verifica tradizionale è la vita stessa obbediente integralmente ad una intenzione votata all’Amore di Dio. Amare, per gli aderenti alle confraternite del sufismo, è dunque vivere la scoperta incessante del segreto dell’Amato e non è mai una passività o una estraneità dall’azione. Piangi e riceverai il latte, esci e troverai il guadagno, semina e crescerà il raccolto, ama e scoprirai il segreto. L’Amore di Dio dona una ragione alla vita che va ben al di là delle sensazioni, è una irruzione che spinge l’uomo alla ricerca spirituale in tutte le cose, in ogni situazione e contesto, di questo basso mondo e dei mondi superiori.
“Tutte le speranze, i desideri, gli amori e gli affetti che la gente ha per molte cose – padri, madri, gli amici, i cieli, la terra, i giardini, i palazzi, le scienze, il lavoro, il cibo, le bevande – i santi sanno che sono tutti desideri di Dio e che tutte queste cose sono tutti veli. Quando l’uomo lascia questo mondo e vede il Re senza tutti questi veli, allora si accorge che erano tutti veli e che l’oggetto del suo desiderio era in realtà L’Unico. Tutte le difficoltà saranno risolte, tutte le domande e le perplessità che aveva nel petto avranno risposta. Egli vedrà ogni cosa faccia a faccia”.
“In realtà, ciò che ti attrae è una sola cosa ma appare molteplice. Non vedi come l’uomo desidera cento cose differenti? Dice: “voglio lo stufato tutmaj, voglio burak, voglio halwa, voglio carne fritta, voglio frutta, voglio datteri”. Egli moltiplica e nomina tutti questi desideri ma la radice è solo una: la fame. Non noti che quando è sazio con una cosa dice “nessuna di queste altre è necessaria”? Dunque è chiaro che non ci sono decine o centinaia di cose ma solo Una”.

Jalal al-Din Rumi, ci insegna a riconoscere ancora un paradosso o un’apparente contraddizione nell’Amore: l’Unità nella molteplicità. C’è solo la fame o la sete ma anche una molteplicità di cibi e bevande. Gli oggetti dell’Amore sono molteplici ma sono tutti veli che rivelano e svelano il Volto di Dio. Eppure è necessario passare al di là dei molteplici veli per scoprire un livello più puro e più intimo e più vicino all’Unico Re del Cuore. Proprio come i gradini della scala vanno percorsi uno dopo l’altro per arrivare alla cima, allo stesso modo il sufi deve progredire per svelamenti progressivi senza poter mai scegliere nessun velo come meta e senza poter evitare il gradino o la scala o la prova del maestro se vuole ampliare ed elevare la sua conoscenza interiore dell’Amato. Alcuni si domandano, che senso ha aprirsi verso il mondo o elevarsi verso i cieli quando dobbiamo riconoscere l’Amato nel centro del nostro cuore? La risposta dei maestri dell’esoterismo islamico è quella di invitare i discepoli a trovare prima la chiave e poi la scienza per entrare nel Suo Cuore. L’apertura e l’elevazione sono la chiave per scoprire la scienza dell’ingresso e della permanenza presso L’Unico.
“Quando l’amore di al-Hallaj raggiunse il suo stadio più elevato, la sua persona divenne il proprio nemico e si annullò. Allora disse, “Io sono Dio”, vale a dire, “Io sono stato estinto. Dio rimane e nient’altro”. Questo stadio corrisponde al livello dell’estrema umiltà e al grado finale della servitù. Significa, “Solo Lui è”. Mentre attestare una falsità ed esserne orgogliosi corrisponde a dire, “Tu sei Iddio e io sono un servitore”. Così facendo tu affermi la tua individualità e la dualità sarà la naturale conseguenza. Se dici, “Lui è Dio”, anche in questo caso c’è dualità, poiché non può esserci un “Lui” senza un “Io”. Ecco perché Dio ha detto, “Io sono Dio”. Al di fuori di Lui, nulla è mai esistito. Al-Hallaj si è estinto e le sue parole erano le parole di Dio”.

Imam Yahya Pallavicini