Comitato per l’Islam Italiano – Parere su Imam e formazione

2012 - Documento ufficiale del Comitato per l'Islam Italiano presso il Ministero dell'Interno, organismo collegiale istituito nel 2010 con funzioni consultive sui temi dell'immigrazione, per migliorare l'inserimento sociale e l'integrazione delle comunità musulmane nella società nazionale


Comitato per l’Islam Italiano – Parere su Imam e formazione

1. Premessa

È stato chiesto al Comitato per l’Islam Italiano un parere sulla questione degli “imam”, ormai al centro dell’attenzione di tutti i paesi europei e che ha dato vita ad una mole ingente di studi e rapporti, nonché a politiche pubbliche (si veda, da ultimo, il caso della Germania) volte ad affrontare, anche con l’impiego di ingenti risorse, quella che è divenuta una posta strategica nel processo di integrazione delle comunità musulmane in Europa. Anche il Parlamento italiano, d’altronde, si è interessato al tema e diverse proposte di legge sono state presentate in materia, specie in relazione alla istituzione di un “albo” o “registro” degli imam. Prima di entrare nel merito del tema in oggetto e avanzare qualche proposta operativa, sembra opportuno premettere un inquadramento che aiuti a meglio cogliere natura e funzioni di una “figura religiosa” dalla storia ormai antica.

2. Il contesto delle origini e la visione classica

La funzione dell’imam nasce nel periodo originario dell’islam, specificamente come guida della preghiera comunitaria. Non soltanto quella di venerdì a mezzogiorno, ma qualunque altra preghiera fatta in gruppo prevede un “antistite” (colui che sta davanti) che recita alcune formule e compie i gesti tipici della preghiera (inchini e prosternazioni) seguiti dai presenti nella sequenza e col ritmo appunto dell’imam.

L’imam non è paragonabile a un sacerdote né ad altre persone “consacrate” in ambito cristiano. Nella vita quotidiana può benissimo svolgere qualsiasi lavoro, avere una famiglia. Esso risulta, pertanto, una sorta di primus inter pares tra i fedeli che semplicemente lo autorizzano, per età e carisma, a guidarli nel rito. È significativo che la preghiera del venerdì sia stata istituita a Medina, dopo l’égira, quindi quando i seguaci di Maometto si costituirono in umma, comunità distinta dalle altre, bisognosa di suoi riti e momenti di espressione che la caratterizzassero in quanto tale. A guidare tale preghiera era lo stesso Profeta dell’islam o uno dei suoi compagni più fidati, da lui espressamente incaricato. C’è dunque anche un valore socio-politico nel rito comunitario del venerdì, che nella guida della preghiera riconosce implicitamente anche una funzione di leadership. Lo confermano pure le disposizioni che, per la validità del rito, prevedono la presenza di un certo numero di maschi e adulti: i protagonisti a pieno titolo della vita associata del tempo.

3. Nuove valenze : all’interno del mondo islamico...

Da sempre la moschea, luogo di culto, ma anche di riunione e di socializzazione primaria, ha uno stretto legame con la dimensione politica. Non è, quindi, un fatto nuovo che nella moschea si riverberino disagi e tensioni, ma anche successi e motivi di soddisfazione della collettività. L’epoca contemporanea non fa eccezione, e sembra anzi aver accentuato il fenomeno sia per mancanza di alternative (possibilità di libera associazione ed espressione sono infatti spesso molto limitate nei paesi islamici), sia a causa dell’azione corrosiva che la modernizzazione ha esercitato sulle strutture tradizionali della società, erosione alla quale gli spazi e i simboli religiosi sembrano aver saputo resistere meglio di altri. Il controllo degli Stati a maggioranza musulmana, generalmente riservato alle grandi istituzioni, ha cercato di estendersi negli ultimi anni fin nelle ramificazioni più periferiche delle sale di preghiera e dell’insegnamento religioso, in un’affannosa rincorsa che non sempre ha dato i risultati sperati e talvolta con controproducenti azioni repressive le quali hanno fatto lievitare ancor più la popolarità di alcuni predicatori e il valore simbolico di determinati luoghi.

La nascita degli Stati nazionali moderni ha poi comportato una burocratizzazione della funzione dell’imam, divenuto un dipendente dello Stato, di competenza del Ministero degli affari religiosi, sebbene ciò sia limitato a coloro che si dedicano esclusivamente a tale professione presso sedi di culto centrali o prestigiose. Nelle periferie urbane e soprattutto in ambito rurale prevalgono invece figure carismatiche locali, che spesso partecipano anche a nascite, fidanzamenti e matrimoni o sepolture, si occupano dell’insegnamento religioso (soprattutto della memorizzazione del Corano da parte dei bambini), fungono da mediatori in dispute private e collaborano a iniziative caritative e assistenziali, senza avere una specifica nomina, né qualifiche che vadano oltre la loro fama di sapienti e la stima di cui godono nella collettività.

4. ... e in contesto migratorio

In contesto migratorio è ancor più evidente la funzione sociale e aggregativa, tanto della moschea in quanto luogo, quanto delle pratiche che vi si svolgono.
Sul quadro “classico” che permane sostanzialmente valido nei paesi d’origine, si innestano, pertanto, varianti anche di notevole entità, che si possono, così sintetizzare:

- Maggior libertà dei gruppi religiosi: in assenza di un ministero degli Affari religiosi e in un contesto in cui l’autonomia confessionale costituisce un pilastro del diritto di libertà religiosa nello spazio giuridico europeo, la moschea come luogo di culto e l’imam come ministro del culto restano di competenza primaria della comunità che ne è interessata;

- Presenza di altri ruoli comunitari: accanto all’imam vi sono spesso altre figure, come i presidenti delle Associazioni islamiche costituite localmente o a livello nazionale che giocano un ruolo importante nell’orientamento dei singoli gruppi e della comunità musulmana in generale: ciò peraltro, non costituisce una novità, essendo riscontrabile il medesimo, delicato, rapporto tra “figure rituali” e “figure amministrative” anche in altre comunità religiose, come, ad esempio, quella ebraica;

- Moltiplicazione delle funzioni: alle funzioni di culto (presiedere la preghiera collettiva, predicare) se ne sono aggiunte altre di carattere religioso (catechesi per piccoli e adulti, direzione spirituale anche in casi particolari come ospedalizzazione o carcere, gestione di coppie miste) e non (sia rivolte all’interno come corsi di lingua araba, sia all’esterno come interfaccia con enti religiosi o civili).

L’islam (sunnita) ha sempre evitato di istituzionalizzare sistematicamente luoghi e attori del culto, ma per una serie di condizionamenti in contesto migratorio la moschea tende, sempre di più, ad assomigliare a una parrocchia, fornendo una serie di servizi e forme di assistenza (doposcuola, sussidi materiali) destinati ad incidere sul percorso di integrazione soprattutto dei nuovi arrivati, ma anche di chi è nato e cresciuto qui e desidera mantenere la propria fede d’origine in modo esplicito, pur con caratterizzazioni diverse a seconda dell’età e della condizione sociale (es. donne). Di conseguenza, anche la figura degli imam tende, molto spesso, a “clericalizzarsi”, acquistando una certa importanza.

Di qui l’attenzione riservata da molti Stati dell’Unione Europea in modo da favorire la presenza di imam capaci sia di orientare i fedeli alla pietà spirituale sia al senso di responsabilità nei confronti della società in cui vivono, preservando la comunità da influenze fondamentaliste e garantendo al luogo di culto, centro della vita comunitaria, un carattere di massima trasparenza e dignità.

5. Imam e diritto italiano

Indipendentemente dalle specifiche funzioni svolte e, di conseguenza, indipendentemente dalle specifiche denominazioni eventualmente assunte all’interno della propria comunità, gli imam sono inquadrati dal diritto italiano all’interno della categoria unitaria dei “ministri di culto”. Con il termine “ministro di culto”, infatti, il diritto dello Stato fornisce uno statuto giuridico comune, prescindente dalla confessione religiosa di appartenenza, a quanti svolgano compiti specifici, diversi da quelli svolti dai “normali” fedeli, all’interno di una comunità religiosa. Questo termine, pertanto, non costituisce una terminologia di derivazione confessionale, ma un nomen iuris tutto interno al diritto dello Stato.

Nello stesso tempo, tuttavia, il riconoscimento della qualifica di “ministro di culto” manifesta un collegamento tra ordinamento giuridico dello Stato e “ordinamenti giuridici” delle comunità religiose: lo Stato, infatti, attribuirà tale qualifica “a valle”, a quanti abbiano già ricevuto, “a monte”, uno specifico mandato dalla propria comunità religiosa.

Il collegamento tra ordinamento statale e ordinamento religioso evidenza i due binari entro cui va collocato ogni discorso sui “ministri di culto”: l’autonomia confessionale, da un lato, e l’autonomo potere di valutazione statuale dall’altro. Da una parte, infatti, solo il gruppo religioso può decidere a chi affidare compiti specifici al suo interno e lo Stato non può sostituirsi alla comunità religiosa nella nomina o nella selezione della “classe dirigente” di quest’ultima; dall’altra, tuttavia, lo Stato ha il diritto, prima di riconoscere formalmente la qualifica di ministro di culto, di verificare sia che il soggetto designato dalla comunità religiosa eserciti effettivamente attività che lo distinguano dai “normali” fedeli, sia che tali attività rientrino tra quelle identificabili come “religiose” sulla base di criteri (pre-)definiti dallo stesso ordinamento giuridico statale.

Occorre, tuttavia, subito chiarire che l’attribuzione della qualifica di ministro di culto da parte dello Stato non è, a diritto vigente, condizione indispensabile e necessaria per l’esercizio di funzioni religiose all’interno di un gruppo confessionale. La qualifica formale di “ministro di culto”, in altre parole, assume rilevanza soltanto nei casi in cui si realizzi un collegamento esplicito e formale tra diritto dello Stato e attività esercitata dal soggetto investito di funzioni religiose dal proprio gruppo o perché il soggetto richieda di fruire di determinate garanzie (ad esempio non essere obbligato a deporre su quanto abbia conosciuto in virtù del proprio ministero) o – più specificamente - perché richieda un riconoscimento civile di determinati atti da lui posti in essere: come, ad es., la celebrazione di matrimoni con rito religioso.

Di conseguenza, la presenza della categoria unitaria dei “ministri di culto” e, dunque, la presenza di una normativa che già affronta molte delle questioni che interessano anche l’attività del personale religioso musulmano, consente e rende opportuno allo stato attuale l’inquadramento della “questione imam” all’interno del diritto comune vigente. In questo senso, il Comitato, ribadisce la posizione già espressa nei due precedenti pareri, circa l’inopportunità – e l’illegittimità - di ogni “normativa unilaterale speciale”, per un solo gruppo religioso determinato, come sarebbe, ad es., l’istituzione di un albo o registro “degli imam”. Del resto, la presenza di specificità legate alle caratteristiche proprie di un culto ed a cui il diritto comune non riesce a rispondere deve trovare adeguata e legittima soluzione non già all’interno di norme unilateralmente predisposte dallo Stato ma soltanto in disposizioni previamente concordate con le comunità religiose interessate, secondo quanto previsto dall’art. 8, 3 Cost.

6. Le sfide dell’integrazione

Non è, tuttavia, possibile ignorare come proprio la questione degli imam sia oggi, come si è già detto, all’attenzione di tutti i governi europei. Del resto, se l’integrazione delle comunità musulmane in Italia è l’obiettivo principale dell’attività di questo Comitato appare fondamentale porre attenzione a quanto può consentire a tali comunità di dotarsi di personale religioso adatto alla realtà locale, al contesto culturale, sociale e civico-istituzionale italiano e, dunque, adeguatamente formato e in grado di agire con trasparenza senza veicolare prassi o ideologie minacciose per l’ordine pubblico materiale del paese. Naturalmente ciò dipende, in primo luogo, dalla volontà degli interessati, ma anche dalla loro preparazione e dagli strumenti comunicativi di cui sono in possesso. Dall’altra, tale processo dipende pure dall’impegno fattivo delle pubbliche istituzioni che possono servirsi di due leve principali, una di carattere strettamente tecnico-giuridico, un’altra, di più ampio respiro, che consente di affrontare in radice molte delle questioni attualmente legate al “dibattito sull’islam”. Ci si riferisce, da un lato, all’istituto dell’approvazione dei ministeri di culto (7.); dall’altro, al tema della formazione (non solo) degli imam ma anche, più in generale, dei ministri di culto delle comunità religiose di più recente insediamento in territorio italiano (8.).

7. L’approvazione dei ministri di culto: il diritto vigente

L’istituto dell’approvazione è tuttora regolato dalla c. d. legislazione sui “culti ammessi (legge 1159/1929 e suo decreto esecutivo 230/1930) che stabilisce la necessità di tale forma di riconoscimento ogniqualvolta si voglia attribuire rilevanza civile all’attività posta in essere da un ministro di culto e, dunque, anche da un imam. Si tratta di una cornice normativa che, com’è facile intuire, risente di una certa vetustà e che va applicata secondo Costituzione e sulla base degli interventi in materia della Corte costituzionale, con particolare attenzione alla sentenza n. 59 del 29 novembre 1958.
Ai sensi di tale legislazione, tuttora in vigore, l’approvazione conferisce cinque facoltà principali:

1) Possibilità di pubblicazione e affissione nell’interno ed alle porte esterne degli edifici destinati al proprio culto gli atti riguardanti il governo spirituale dei fedeli, senza particolare licenza dell’autorità di pubblica sicurezza e con esenzione da tasse. Tali atti debbono essere scritti in lingua italiana, salva la facoltà di aggiungere, accanto al testo italiano, la traduzione in altre lingue (art. 3, regio decreto 230/1930);

2) Possibilità di eseguire collette nell’interno ed all’ingresso degli edifici destinati al proprio culto senza alcuna ingerenza delle autorità civili (art. 4 regio decreto 230/1930);
3) Possibilità di celebrare matrimoni con gli stessi effetti dei matrimoni celebrati davanti all’ufficiale dello stato civile (artt. 7 ss. legge 1159/1929);

4) Possibilità di dispensa dalla chiamata alle armi in caso di mobilitazione delle forze armate dello Stato (art. 7 regio decreto 1930);
5) Possibilità di prestare l'assistenza religiosa ai militari acattolici in caso di mobilitazione delle forze armate dello Stato (art. 8 regio decreto 230/1930).

L’approvazione, di conseguenza, non serve per godere dei contenuti “minimi” e “generali” del diritto di libertà religiosa, universalmente garantiti dall’art. 19 Cost. senza limiti di cittadinanza e con il solo limite espresso della non contrarietà dei riti al buon costume.
In particolare, l’approvazione non è richiesta per:

1) L’apertura di luoghi di culto: a questo riguardo, con sentenza 59/1958, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 1 del regio decreto 230/1930 che prevedeva l’obbligo dell’autorizzazione (richiesta necessariamente da un ministro di culto approvato) per l’apertura di templi ed oratori in quanto l’approvazione del ministro di culto non serviva più soltanto «per il conseguimento di certi vantaggi» (quali, ad esempio, la libera raccolta delle collette), ma anche per il semplice svolgimento della propria autonoma professione della fede religiosa. Nella medesima sentenza, peraltro, la Corte costituzionale chiariva anche che la richiesta dell’approvazione non poteva neppure essere giustificata in nome della necessità di assicurare la protezione dell’ordine pubblico, ritenendosi «insussistente nel nostro ordinamento giuridico la regola che ad ogni libertà costituzionale possa corrispondere un potere di controllo preventivo da parte dell’autorità di pubblica sicurezza. Il che, come è evidente» – continuava la Corte «non può escludere che sui comportamenti effettivamente verificatisi cadano, nelle fattispecie previste, le sanzioni della legge; e su quelli in atto si eserciti, anche ai fini dell’ordine pubblico, il potere della polizia, entro i limiti giuridicamente consentiti».

2) L’assistenza spirituale nei luoghi di cura: per essa è sufficiente l’autorizzazione della direzione amministrativa del luogo di cura (art. 5 regio decreto 230/1930);
3) L’assistenza spirituale negli istituti di prevenzione e di pena: nel caso di assistenza a detenuti appartenenti a culti senza intesa ci si avvale «dei ministri di culto indicati a tal fine dal Ministero dell'interno; (si) può, comunque, fare ricorso, anche fuori dei casi suindicati, a quanto disposto dall’articolo 17, secondo comma, della legge» (il riferimento è alla legge n. 354 del 26 luglio 1975 che ammette «a frequentare gli istituti penitenziari (...) tutti coloro che, avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti, dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera» (art. 6 regio decreto 230/1930 e d. P. R. 30 giugno 2000, n. 230, artt. 58, n. 6 e 116).

L’approvazione, in altre parole, risulta, condizione preliminare al conseguimento di particolari “vantaggi”, eccedenti la misura di libertà discendente dalla fruizione del diritto di libertà religiosa già goduto in virtù dell’art. 19 Cost. e connessi, nell’interpretazione della Corte costituzionale, all’alveo dei “rapporti” tra Stato e confessioni religiose di cui all’art. 8 Cost. In questo caso, tuttavia, i “rapporti” non sono necessariamente collegati alla stipula di un’intesa, né al riconoscimento quale ente morale di religione o di culto di un’associazione musulmana, ma ad un livello meno strutturato – e, se si vuole, più diffuso - di collegamento (ad es. , la celebrazione di matrimoni con effetti civili; la raccolta di fondi) che comporta per lo Stato la necessità di conoscere la struttura organizzativa di un gruppo religioso che dovrà, a questo punto, usufruire della possibilità riconosciutagli dal secondo comma dell’art. 8 ( = autonomia statutaria) nel caso in cui voglia porre in essere atti in qualche modo rilevanti anche per l’ordinamento civile.

Infine, è bene precisare che, a diritto vigente, nel caso in cui i seguaci del culto, cui appartiene il ministro di culto che chiede l’approvazione siano nella maggioranza cittadini italiani oppure nel caso in cui al ministro del culto spetti la facoltà di celebrare matrimoni religiosi dei propri fedeli con effetti civili, il ministro del culto deve avere la cittadinanza italiana e saper parlare la lingua italiana.

7. 1. L’approvazione dei ministri di culto: un possibile, nuovo, utilizzo

L’istituto dell’approvazione, senza precludere l’esercizio dei contenuti basilari del diritto di libertà religiosa, mira, dunque, ad assicurare l’ordinamento statale circa l’affidabilità e la serietà dei ministri di culto chiamati a svolgere funzioni destinate ad avere anche effetti civili. Nello stesso tempo, l’istituto dell’approvazione, che va inquadrato, come osservato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, all’interno di una categoria dei “rapporti” tra Stato e confessioni religiose indica uno stadio già avanzato di strutturazione del gruppo religioso.

Appare, dunque, significativo che, allo stato attuale, non risultino ministri del culto islamico “approvati” né risultino domande da parte della comunità islamica in tal senso. L’istituto dell’approvazione, tuttavia, potrebbe risultare strategico per l’integrazione del culto musulmano in Italia favorendone il processo organizzativo e l’emersione del profilo più specificamente religioso nel rispetto della sua autonomia e pluralità. Valorizzare l’istituto dell’approvazione consentirebbe, in particolare, di:

1) rendere più trasparenti le attività di raccolta fondi all’interno della comunità religiosa;
2) rendere più trasparente il servizio di assistenza negli istituti prevenzione e pena tenendo conto che l’art. 58 del regolamento sull’ordinamento penitenziario prevede già come via maestra per l’assistenza spirituale negli istituti penitenziari l’utilizzo di “ministri” « indicati a tal fine dal Ministero dell’interno», senza alcuna precisazione circa le modalità di individuazione di tali ministri “indicati” e sulla ratio di una categoria (eventualmente) differente da quella dei ministri “approvati”;
3) affrontare nuove situazioni non regolate allo stato, quali, ad es., a) la questione dell’assistenza spirituale ad eventuali militari di religione musulmana (come di altri culti senza intesa) che, specie con l’avvenuta professionalizzazione delle forze armate, non può più essere prevista per il solo caso della “mobilitazione” e b) la questione dell’accesso negli istituti pubblici di istruzione per l’insegnamento della religione: anche in questo caso l’istituto dell’ “approvazione” del ministro potrebbe risultare di qualche utilità in questo ulteriore momento di collegamento tra ordinamento civile e ordinamento religioso.
4) mettere in luce la dimensione più prettamente religiosa dell’attività comunitaria, propedeutica ad una strutturazione associativa trasparente ed effettivamente rispondente alle attività di religione e di culto (in materia il Comitato si riserva di intervenire con un prossimo parere dedicato al tema dell’associazionismo religioso).
5) offrire una miglior tutela alle parti più deboli, in genere la donna, all’interno del rapporto matrimoniale. Con riguardo alla celebrazione di matrimoni da parte del ministro approvato giova, infatti, precisare che tali matrimoni sono in tutto regolati dal diritto dello Stato italiano quali matrimoni civili celebrati secondo una “forma” religiosa. Di conseguenza, l’approvazione di ministri di culto islamici non comporterebbe un riconoscimento dell’efficacia civile degli istituti tipici del diritto musulmano in materia matrimoniale (ad es. impedimenti matrimoniali e ripudio) ma potrebbe costituire, piuttosto, il presupposto per una più adeguata tutela per i nubendi, in particolare per la moglie posta nelle condizioni di avvalersi a pieno titolo, specie in caso di divorzio, di tutte le garanzie previste dal diritto civile italiano.

Infine, se l’approvazione non può essere condizione indispensabile al fine dell’apertura di un luogo di culto senza oneri per lo Stato (cfr., la già citata sentenza n. 59/1958) ci si potrebbe chiedere se l’approvazione del ministro di culto non possa divenire condizione indispensabile per la fruizione, da parte del gruppo religioso, dei contributi pubblici previsti per l’edilizia di culto. L’approvazione, infatti, consentirebbe di verificare l’autoqualificazione confessionale evidenziando, al contempo, il collegamento tra ente pubblico erogatore e gruppo religioso beneficiario, senza necessariamente condizionare la fruizione di tali benefici alla previa stipula di un’intesa, requisito, peraltro, già ritenuto illegittimo da parte della Corte costituzionale con la nota sentenza n. 195 del 27 aprile 1993 né al previo necessario riconoscimento dell’associazione come ente morale di religione e di culto.

In questo quadro, quale strumento per l’integrazione del pluralismo religioso, l’approvazione non dovrebbe costituire un miraggio irraggiungibile per il “ministro di culto” e la sua comunità: nel rispetto del principio di legalità e delle esigenze di trasparenza e sicurezza, l’approvazione potrebbe divenire un ordinario mezzo di collegamento, di reciproco riconoscimento, tra autorità pubbliche e gruppi religiosi che si vogliano integrare nel tessuto sociale e civico italiano.

In caso contrario, risulterebbero incoraggiate prassi mimetiche potenzialmente antitetiche agli obiettivi di legalità, sicurezza ed integrazione auspicati. Sembra, dunque, opportuno prevedere una circolare che, fornendo un’interpretazione costituzionalmente compatibile dell’istituto, chiarisca le modalità di “approvazione” precisandone i requisiti richiesti, a partire dalla sottoscrizione della Carta dei Valori di cui al d. m. 23 aprile 2007 (da parte di tutti i ministri, musulmani e non, richiedenti) anche in relazione alla formazione (cfr. infra) e prevedendo la costituzione di un albo dei ministri di culto approvati di pubblico accesso.

Occorrerà, comunque, prestare molta cautela alle modalità di utilizzo di questo strumento che potrebbe comportare rigidità non sempre benefiche.

8. La formazione

Se non è certo possibile pensare alla formazione di “imam di Stato”, non è precluso alle pubbliche istituzioni proporre percorsi di maturazione per potenziali leader.
In particolare, l’azione delle pubbliche istituzioni potrebbe agire su due fronti, quello della formazione civica del personale religioso dei gruppi religiosi di più recente insediamento e, secondo modalità differenti, quello della formazione teologica, accompagnando e incoraggiando una formazione adatta al concreto contesto di insediamento.

Per quanto riguarda la “formazione civica” risulterebbe opportuno sia condizionare l’approvazione dei ministri di culto alla frequenza di uno specifico corso di formazione incentrato sull’esposizione dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano e, in particolare, delle norme che regolano il diritto di libertà religiosa, sia prevedere la più ampia diffusione, sul territorio nazionale, di iniziative di formazione civica, organizzate, in coordinamento con le pubbliche autorità competenti, da enti locali, Università e comunità religiose stesse: esperienze in tal senso sono già state praticate con la CO.RE.IS, la Grande Moschea di Roma, l’UIO (Unione Islamica in Occidente) e con altre ancora. Al riguardo merita, innanzitutto, di essere sottolineato come queste organizzazioni abbiano promosso e sviluppato percorsi di formazione teologica cercando di proporre un insegnamento dottrinale in linea con le principali esperienze di insegnamento religioso dell’islam europeo, vale a dire con una particolare attenzione alle fonti del culto islamico da contestualizzare nell’Italia contemporanea. Si tratta di autonomi percorsi di crescita e integrazione dei musulmani in Italia meritevoli di attenzione per il tentativo di declinare l’insegnamento della religione islamica nella sua specificità identitaria e teologica in dialogo sia con la religiosità o la declinazione teologica delle altre confessioni religiose che con il presente contesto socioculturale italiano.

Nello stesso tempo, si segnalano i buoni risultati già raggiunti da attività formative nello specifico campo dell’“educazione ai diritti e doveri della cittadinanza religiosa” promosse da enti pubblici (nel caso di specie Università degli Studi del Piemonte orientale, Università degli Studi dell’Insubria, Università degli Studi di Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Università degli Studi di Padova) con il patrocinio del Ministero dell’Interno (cfr. www.interno.it e www.fidr.it). Tali iniziative, nel pieno rispetto dell’autonomia confessionale dei gruppi religiosi, rispondono all’esigenza civico-istituzionale di porre il personale religioso – e, più in generale, i responsabili associativi - dei culti senza intesa in grado di interagire adeguatamente con le altre, diverse, componenti sociali e con le pubbliche amministrazioni. Tale formazione, che dovrebbe essere estesa ad altre parti del paese (in particolare al Centro e al Sud), da non indirizzarsi ai soli musulmani ma a tutti i responsabili religiosi interessati e a quanti aspirino alla qualifica di ministro di culto approvato, potrebbe ottenere forme di riconoscimento preziose, qualora fossero previsti specifici percorsi formativi – d’intesa con il Ministero dell’Università - nel settore della “mediazione religiosa”.

Per quanto riguarda, poi, la formazione teologica, l’art. 9 del regio decreto 230/1930 fa riferimento a « scuole teologiche, riconosciute dallo Stato, dei culti diversi dalla religione cattolica » la cui frequenza (può) consentire l’ammissione «al beneficio del ritardo del servizio alle armi (...) per coloro che frequentano corsi di studi nelle scuole stesse equiparabili a quelli delle università o dell’ultimo anno delle scuole medie di grado superiore». Questa norma consente, dunque, di prevedere condizioni di accreditamento di istituzioni di formazione confessionale puntando su standard di preparazione scientifica qualitativamente adeguati. Tali istituti, privati, potrebbero essere sia italiani, sia stranieri. Nel primo caso, sempre d’intesa con il Ministero dell’Università e in raccordo con le Università degli Studi per i profili non confessionali del curriculum, si tratterebbe di fornire alle comunità religiose, musulmane compreso, un quadro giuridico certo per un riconoscimento che potrebbe consentire ai frequentanti di poter accedere all’approvazione ministeriale quali ministri di culto, nonché, (se prevista) a quella di “mediatori religiosi” e, con il tempo, a veri e propri master e diplomi universitari.

Per quanto riguarda, invece, l’eventuale collaborazione con istituzioni musulmane dei paesi d’origine, essa potrebbe promuovere corsi e iniziative formative accette e garantite agli occhi dei musulmani italiani. Tuttavia non va trascurato che: 1) si potrebbero innescare processi di ‘etnicizzazione’ dei ministri del culto; 2) la stretta dipendenza dai governi dei paesi di provenienza potrebbe inficiare l’indipendenza e l’autorevolezza di queste istituzioni, spesso condizionate da una visione tradizionalista che ancora impedisce lo sviluppo di studi storico-critici o comunque una sufficiente pluralità di approcci, 3) infine, che molti ‘esperti’ stranieri non conoscono l’italiano né la situazione specifica del nostro Paese e hanno una spiccata tendenza apologetico-controversistica nei confronti delle altre religioni.

Di conseguenza, mentre sarebbe auspicabile lo sviluppo sul territorio nazionale di centri di formazione di livello adeguato da parte delle comunità religiose in loco, sarebbero, in ogni caso, da preferire collaborazioni con chi già abbia dato buona prova di sé in altri contesti occidentali secondo un’ottica volta alla tracciabilità del processo di formazione, che renda trasparenti le qualifiche accademiche, il background e l’appartenenza degli imam, insieme agli eventuali corsi di specializzazione seguiti.

A tal fine, risulta fondamentale la mediazione che le Università degli Studi potrebbero offrire, organizzando – eventualmente in convenzione anche con enti stranieri, sentito il parere del Ministero degli Esteri – corsi in cui anche la formazione teologica musulmana potrebbe essere impartita secondo criteri di adeguata scientificità e profondità culturale. Il Ministero dell’Università dovrebbe, a sua volta, prevedere specifiche modalità di riconoscimento, prevedendo cornici normative entro cui potrebbe dispiegarsi, con certezza, l’azione delle Università.

In sintesi, alla luce del parere sopraesposto il Comitato auspica:

- Ri-valorizzazione dell’istituto dell’approvazione dei ministri di culto come ordinario mezzo di collegamento tra autorità pubbliche e gruppi religiosi che si vogliano integrare nel tessuto

sociale e civico italiano auspicando, sul punto, una circolare che, fornendo un’interpretazione costituzionalmente compatibile dell’istituto, chiarisca le modalità di “approvazione” precisandone i requisiti richiesti, a partire dalla sottoscrizione della Carta dei Valori di cui al d. m. 23 aprile 2007 (sottoscrizione che riguarderà tutti i ministri di culto, musulmani e non, richiedenti) anche in relazione alla formazione e prevedendo la costituzione di un albo dei ministri di culto approvati di pubblico accesso.

  • - La più ampia diffusione, sul territorio nazionale, di iniziative di formazione civica, organizzate, in coordinazione con la Direzione dei Culti del Ministero dell’Interno, da enti locali, Università e comunità religiose stesse, con l’auspicio di una fattiva collaborazione tra loro. Tale formazione che per i risvolti civici non dovrebbe essere indirizzata ai soli musulmani ma a tutti i responsabili religiosi interessati e a quanti aspirino alla qualifica di ministro di culto approvato, potrebbe ottenere forme di riconoscimento preziose, qualora fossero previsti specifici percorsi formativi – d’intesa con il Ministero dell’Università - nel settore della “mediazione religiosa”.

  • - Predisporre, d’intesa con il Ministero dell’Università e con il Ministero degli Esteri laddove competente, la cornice giuridica necessaria sia per l’esecuzione dell’art. 9 del regio decreto 230/1930 (« scuole teologiche, riconosciute dallo Stato, dei culti diversi dalla religione cattolica ») sia per la predisposizione di curricula formativi specifici da parte delle Università degli Studi.