Una preghiera di pace per l'anima di Yusuf Abd al-Azim Pisano

13 dicembre 2025

Una preghiera di pace per l'anima di Yusuf Abd al-Azim Pisano

Testimonianza di vita di un musulmano italiano in Occidente

di Yusuf Abd al-Azim Pisano

Il 1986 è l’anno del mio ingresso nell’Islam, un’epoca in cui i musulmani in Italia erano pochi e le ondate migratorie erano appena agli albori. La sorpresa di genitori, amici e colleghi di lavoro era quindi comprensibile. Da parte mia non ho mai ritenuto di nascondere la nuova vita che mi accingevo a intraprendere, infatti la mia intenzione era chiara: vivere per avvicinarsi ogni istante a Dio seguendo l’esempio del profeta Muhammad. Con determinazione e senza ostentazione avevo chiesto di poter pregare in una camera accanto al mio ufficio durante le ore di lavoro. L’ambiente era quello di un’associazione di categoria che prestava servizi per gli artigiani. Il rispetto non è mai venuto meno pur vivendo in una piccola cittadina come Piacenza, città operosa dell’Emilia.

Avevo 32 anni e l’entrata nell’Islam aveva senz’altro richiesto ai miei genitori una grande pazienza perché, pur riconoscendo in me una maggiore religiosità, non comprendevano le forme dell’Islam come le cinque preghiere quotidiane, la dieta alimentare e la necessità di frequentare altri musulmani. Solo col tempo hanno accettato il cambiamento e, da parte mia, ho avuto la possibilità di ricambiare il loro amore assistendoli fino alla fine della loro vita di 90 e 95 anni. Ho sempre rispettato i miei genitori nella loro religione cristiana e non ho mai preteso che si convertissero.

Mi recavo almeno una volta alla settimana a Milano per incontrare la persona che mi aveva fatto entrare nell’Islam, lo Shaykh Abd al-Wahid Pallavicini. Era un uomo che aveva viaggiato molto nel mondo islamico e a sua volta aveva abbracciato l’Islam nel 1951. Il giorno della mia conversione mi suggerì il nome di Yusuf Abd al-Azim. Fu una sorpresa perché Giuseppe era anche il mio nome italiano ed ero contento della continuità. Il nome divino al-Azim significa “il Magnifico” ed è un attributo di una certa responsabilità da portare.

Già da tempo, intorno alla figura dello Shaykh Abd al-Wahid avevano cominciato a riunirsi diversi  cristiani, musulmani, italiani e francesi, persone molto eterogenee interessate ad ascoltare gli insegnamenti sull’Islam. Filosofi, artisti, professionisti, dai 20 ai 35 anni, accomunati da una stessa sete: la scoperta di una nuova prospettiva della vita attraverso una vocazione spirituale inserita nell’ortodossia islamica. In Francia un gruppo di circa 10 persone, già diventate musulmane per varie strade, riconobbero nello Shaykh un maestro autentico della confraternita islamica Ahmadiyya Idrissiyya Shadhiliyya. Noi italiani, invece, eravamo ancora un passo indietro: chi si stava avvicinando all’Islam, chi lo studiava, chi ne discuteva in relazione al Cristianesimo.

Da parte mia, impiegai solo pochi mesi per capire che non c’era più tempo da perdere, né troppe parole ancora da spendere, bisognava ingaggiarsi per vivere finalmente con pienezza la religione islamica in tutti gli aspetti della vita. Ora, che i settant’anni si avvicinano sono fermamente convinto che attardarsi a mettere in pratica gli insegnamenti che ci vengono elargiti non solo è un “peccato”, nel senso di perdere del tempo, ma può risultare per noi veramente dannoso.

La frequentazione con lo Shaykh Abd al-Wahid, al quale chiesi ben presto il ricollegamento iniziatico, si è protratta fino al 2017, anno della sua scomparsa. Si è trattato di una vera e propria compagnia spirituale, che prosegue anche dopo la sua dipartita, compagnia alla quale ho cercato di rimanere fedele con tutto il mio cuore anche verso chi l’ha succeduto come maestro, il figlio Yahya. Negli anni ’80 parlare di dimensione iniziatica e metafisica era qualcosa che, almeno in Italia, richiamava la Massoneria. Tuttavia gli insegnamenti che ricevevo erano del tutto lontani da questa realtà in quanto affondavano le loro radici nel tasawuuf, il sufismo, la dimensione contemplativa dell’Islam.

Lo shaykh Pallavicini ci insegnava a vivere l’Islam in Occidente, a non chiuderci in noi stessi perché il mondo era diverso ed ignorante della religione islamica e delle confraternite, ci insegnava a vivere in una comunità sebbene abitassimo in città diverse. Ci trovavamo insieme per pregare, mangiare, digiunare, assistere agli insegnamenti magistrali in privato e in circostanze pubbliche. Agli inizi degli anni ’90 ebbi la possibilità di recarmi in visita alla Mecca, compiendo l’umra, e poi a Medina insieme allo Shaykh Pallavicini e ad altri 5 discepoli. Mi resi conto che tutto ciò che ci veniva dato era un susseguirsi di insegnamenti che maestri e imam da tutto il mondo, da 14 secoli, impartiscono a coloro che li seguono. L’evidenza della guida profetica di Muhammad era davvero una luce che accompagnava e guidava la nostra vita, allora come adesso.

Credo che gli adattamenti che lo Shaykh Abd al-Wahid abbia saputo e dovuto fare rispetto al contesto occidentale ci abbiano aiutati a non cadere in un certo esotismo, tentazione di molti occidentali che si avvicinano all’Islam. Venivamo spronati a portare avanti bismillah, in nome di Dio, la famiglia, gli studi o il lavoro e la vita comunitaria, d’altronde era naturale che fosse così, tuttavia difficile da realizzare seguendo la tradizione e non le convenzioni borghesi del mondo decaduto. L’altra tentazione degli occidentali è senz’altro l’intellettualismo che in alcuni di noi discepoli si manifestava con una grande propensione a discutere mentre in altri prevaleva un’inclinazione al solipsismo.

Il richiamo dell’Islam alla concretezza e alla necessità della testimonianza di fede, portò ben presto a cercare un’applicazione dello studio e della dottrina più proficua e reale per noi stessi e per coloro che si interessavano all’Islam. Venne così fondato il Centro Studi Metafisici René Guénon che, inizialmente, si riuniva una sera alla settimana, e in seguito, due. Musulmani e cristiani dialogavano sui rispettivi testi sacri e sulla dottrina, venivano redatti articoli per varie riviste e partecipavamo a conferenze in Italia e in Francia. Nel corso degli anni venne fondata anche la rivista Il Messaggio che ha prodotto 12 numeri fino al 2007. La prova è sempre stata come passare dall’opera alla messa in opera, dalla lettera alla vitalità dello spirito. Non tutti l’hanno superata, sottovalutando la veridicità degli insegnamenti ricevuti, identificandosi con le proprie qualità piuttosto che considerarle un bene ricevuto in custodia da coltivare e far fruttificare.

Una delle prime manifestazioni pubbliche del Centro Studi Metafisici e della confraternita Ahmadiyya Idrissiyya Shadhiliyya si tenne il 3 maggio 1990, una settimana dopo la festa della fine del mese di Ramadan, negli spazi che sarebbero poi diventati quelli della moschea al-Wahid di via Giuseppe Meda 9 a Milano. Il titolo dell’incontro evocava immediatamente le nostre intenzioni “Ascesi al Dio Unico nel dialogo tra le ortodossie abramiche”, i relatori erano Don Pierluigi Boracco, Presidente della Compagnia di San Paolo, il Rabbino Capo di Milano, Rav Giuseppe Laras e il suo Vice, Rav Elia Richetti, Mons. Erminio Bardella del Capitolo di Sant’Ambrogio, Père Michel Lelong di Parigi, Abd al-Haqq Ismail Guiderdoni, membro della confraternita e lo Shaykh Abd al-Wahid, Presidente del Centro Studi Metafisici. Sull’invito si legge: “La Confraternita Islamica e il Centro Studi Metafisici intendono in questo modo continuare e ricambiare l’analoga iniziativa tenutasi il 25 gennaio scorso, presso l’Associazione ‘Cardinal Ferrari’, per gentile impegno della Compagnia di San Paolo”.

Dal confronto pubblico emerse l’assenza di categorie intellettuali e metafisiche che potessero far dialogare le religioni tra loro senza innescare lo scontro teologico su ciò che è diverso e deve rimanere tale in virtù del mistero divino. Se l’opera di René Guénon costituiva senza dubbio un sostegno intellettuale e dialettico al confronto con le altre religioni e persino con i non credenti, lo Shaykh Abd al Wahid ci guidava a non dimenticare l’escatologia. Infatti, una cosa che mi colpì sin dall’inizio della nostra conoscenza fu la particolare immediatezza nel collegare la dimensione spirituale con i Segni dell’Ora, come dice il Corano, cioè i segni della fine dei tempi.  Come mai un maestro musulmano insisteva con tanto ardore sulle figure del Cristo e dell’Anticristo? Non si trattava certo di un interesse per le religioni comparate dell’Islam e del Cristianesimo, bensì di evocare realtà spirituali vicine al nostro ciclo di manifestazione che si renderanno visibili al mondo non senza sconvolgimenti.

L’escatologia come realtà attuale delle nostre vite evocava anche la terza città santa dell’Islam: Gerusalemme. Lo Shaykh Abd al Wahid promosse un progetto denominato “Gerusalemme sui Navigli”, uno spazio per la conoscenza delle tre religioni abramiche, dove fossero presenti in edifici diversi una chiesa, una moschea e una sinagoga, rifuggendo ogni sincretismo rituale. Di altro indirizzo era la curia milanese, nonostante in quegli anni il Cardinal Carlo Maria Martini cominciò a interessarsi di Islam in seguito al costituirsi a Milano e in Italia di Centri islamici in cui confluivano i primi migranti. Per molto tempo prevalsero le ragioni di un confronto con la diversità dello straniero piuttosto che con l’unità del principio del Dio Unico. Diverso l’approccio del Rabbino Laras e del Rabbino Richetti che hanno iniziato un coraggioso dialogo con noi durato per trent’anni e che prosegue con i loro successori e con la comunità ebraica italiana e internazionale.

Negli anni, il progetto della “Gerusalemme sui Navigli” si è poi trasformato, nel proseguimento del dialogo fra le tre religioni abramiche portato avanti con intense attività esteriori a Milano, Torino, Vicenza e Roma anche dall’Accademia di Studi Interreligiosi I.S.A., che organizza convegni e cicli di seminari formativi dando voce a rappresentanti autorevoli dell’Ebraismo e del Cristianesimo su temi che permettano una lettura dei “segni dei tempi” nelle vicende e nelle tematiche dell’attualità.

Da questi primi tentativi di dialogo interreligioso emergeva la nostra eccezionalità, il nostro essere diversi dai musulmani originari che avevano tutt’altre priorità rispetto al dialogo. Tutto ciò era motivo di maggior impegno, verso gli altri credenti e verso i musulmani, per dimostrare che l’ortodossia islamica non poteva essere dimenticata o sopraffatta da esigenze sociali e ideologiche.

Un altro monito dello Shaykh Abd al-Wahid riguardava la necessità di diventare più religiosi, cosa che ci condusse verso scelte più impegnative attraverso la costituzione nel 1993 dell’Associazione Italiana per l’informazione sull’Islam - che nel 2000 prese il nome di Comunità Religiosa Islamica Italiana (COREIS). L’istituzionalizzazione in un’associazione, con le conseguenti responsabilità, produrrà due reazioni contrapposte, ma in definitiva convergenti, in alcuni compagni che abbandonarono la via: l’orgoglio di una presunta superiorità intellettuale e l’insofferenza per il moltiplicarsi delle attività in cui ingaggiarsi.

Per fare un esempio di cosa comportasse la responsabilità pubblica intrapresa, vorrei ricordare le frequentazioni del Meeting per l’Amicizia tra i Popoli organizzate a Rimini da Comunione e Liberazione. Per oltre 15 anni abbiamo partecipato a numerosi incontri cercando di offrire un contributo intellettuale e una testimonianza spirituale in un ambiente in cui l’Islam era eventualmente rappresentato da qualche diplomatico o dignitario di un Paese straniero. Lo sforzo di seguire le pubbliche relazioni e i contatti politici, entrambi lontani dalle nostre corde, è stato di grande insegnamento per imparare cosa volesse dire “essere nel mondo senza esserne”, come non si stancava di ripeterci il nostro maestro.

Un altro evento di svolta nella vita comunitaria che seguivo con assiduità riguardò la decisione nel 1995 di non frequentare più la moschea di Viale Jenner a Milano per la preghiera del venerdì a causa dei contenuti dei sermoni che attaccavano costantemente gli ebrei e i cristiani. Solo in seguito uscì la notizia che l’imam di tale moschea sarebbe deceduto in Bosnia durante la guerra. Lo Shaykh Pallavicini decise di istituire la preghiera del venerdì negli spazi di via Giuseppe Meda 9 e chiese, con nostra sorpresa, di svolgere a turno il ruolo di imam, preparando il sermone in lingua italiana e ovviamente conducendo la preghiera in arabo. Si è trattata di una vera e propria formazione per cercare di esercitare una funzione al servizio della comunità e contemporaneamente di essere verificati dai propri fratelli, sorelle e Maestria.

Come sempre la prova non consisteva nel creare un mondo a parte, fatto di affinità elettive tra musulmani italiani, bensì di esercitarsi nell’umiltà di essere verificati per poi sapersi immergere nella umma, la comunità, in occasioni pubbliche come le feste e i convegni all’estero ai quali il mondo islamico internazionale cominciava a invitarci. Per coloro che continuavano a coltivare la propria individualità questa rappresentava la “peggior morte”, incapaci di vedere come l’autorità spirituale agisse continuamente per il nostro bene spirituale, anche se noi non ce ne accorgevamo o non comprendevamo.

All’inizio degli anni ’90 venne organizzato d’estate un ritiro spirituale sulle montagne francesi, vicino alla città di Embrun, dove convergevano italiani e francesi per circa una settimana. Ricordo la storica passeggiata nei boschi verso una fonte che veniva chiamata les sources de Jérusalem, luogo per noi tutti simbolico dove ascoltavamo gli insegnamenti magistrali. La natura come simbolo della fedeltà del Creato all’ordine divino è sempre stato un supporto di contemplazione per aspirare alla realtà dell’Altro Mondo la cui bellezza e realtà superano quelle di questo mondo. L’istituzione del ritiro estivo prosegue ancora oggi, ogni anno senza interruzioni, soltanto i luoghi sono cambiati per soddisfare le esigenze di una comunità che è cresciuta e si trova alla terza generazione di musulmani italiani e francesi, con figli e nipoti.

L’aiuto fraterno nel vivere tutti i giorni insieme è sempre stato una grande benedizione e un sostegno per poi ritornare ciascuno nelle proprie collocazioni geografiche, da Calais a Palermo. La frequentazione e il cambio di abitudini rispetto alla vita ordinaria facevano emergere qualità e limiti che la maieutica magistrale ci faceva notare col sorriso e talvolta con rigore, prendendo ad esempio un discepolo per correggerne un altro. Quest’azione di “limare il carattere” era costante tutto l’anno, e nel ritiro estivo la Grazia divina ci elevava a tali aperture che bisognava farne tesoro. Non si ritornava a casa come prima, quello che sarebbe stato uno sforzo titanico individuale per far prevalere l’uomo nuovo, avveniva naturalmente, forse con l’aiuto di quella fitra, quella primordialità, che la vita tradizionale è in grado davvero di far ricordare prima al cuore ed eventualmente poi alla mente.

A partire dal 2000 ho cominciato a svolgere un ruolo regionale come rappresentante della Comunità Religiosa Islamica Italiana (COREIS) in Emilia Romagna. Si è trattato di avviare una serie di collaborazioni e attività con le comunità islamiche locali, le istituzioni di Comuni, Province e Regione, con la Prefettura e con le comunità di altre fedi. Molto proficuo è stato il rapporto con la comunità ebraica e in particolare con Rav Alberto Sermoneta con il quale abbiamo partecipato a un progetto promosso dall’allora presidente della Provincia di Bologna, Beatrice Draghetti. Un viaggio interreligioso a Gerusalemme di quattro giorni nel febbraio del 2014, rivolto agli studenti liceali del territorio emiliano accompagnati dalle rispettive autorità religiose con visite nei luoghi delle tre fedi abramiche. È stato un successo e insieme anche al parroco don Stefano Ottani è stata costituita l’associazione “Abramo e Pace” che ha continuato negli anni successivi a organizzare viaggi di giovani a Roma in visita nei tre templi delle tre fedi Sinagoga, San Pietro, Grande Moschea e a promuovere la formazione dei docenti di religione.

Da sottolineare come i rapporti con le comunità islamiche locali sono sempre stati buoni,  in particolare con la comunità bosniaca. Ciò mi ha permesso di collaborare al progetto Cittadini si diventa. Il contributo degli immigrati alla progettazione delle politiche locali promosso dalla Fondazione per la cittadinanza attiva (FONDACA) e finanziato dal FAMI dell’Unione Europea e dal Ministero dell’Interno, coordinando dal 2018 al 2019 i responsabili delle varie comunità di migranti.

Oggi la nostra società continua a non conoscere l’Islam nonostante ne sia ormai compenetrata. Ciò significa che gli occidentali continuano a essere indifferenti a una dimensione del sacro che, seppur in un forma diversa, comunque li riguarda da vicino. D’altro canto l’identità dei musulmani d’origine continua a essere vaga e diventa preda di suggestioni di ogni tipo, dal letteralismo al fondamentalismo fino al terrorismo. È in questo paradosso che si è sviluppata la piccola comunità di musulmani italiani guidati dallo Shaykh Abd al Wahid prima e dall’Imam Yahya Pallavicini adesso, con la funzione di riportare la luce della tradizione islamica in Occidente per ciò che è e non per l’immaginazione che se ne ha. Un’azione sovraumana di cui non c’è originalità e il merito sta eventualmente nella determinazione dell’intenzione che ci ha condotto fino qui.

Come anziano potrei dire che nel corso degli anni non sono mancate situazioni assurde, di cui avremmo fatto volentieri a meno, ma che ci hanno mostrato di essere parte del teatro divino. Allora non nascondiamoci dietro le prove e le cadute che riguardano in generale tutti e in particolare ognuno con la propria specifica. La vergogna è sempre sinonimo di ignoranza mentre il timore divino è la chiave per cambiare. Quando il maestro ci mette di fronte a ciò che siamo e vediamo qualcosa che non ci piace solo l’accettazione è prodromo del cambiamento. Una tale possibilità non dura per sempre, ha un tempo, è un’istante da cogliere per evitare di rendere cronico in noi un difetto, un male, una ribellione. L’Avversario sa fomentare l’indipendenza nell’animo dell’uomo e della donna per farli uscire dalla protezione divina e neutralizzare in loro il vero cambiamento. Allora la cura dalle nostre malattie dell’anima è possibile solo accogliendo l’aiuto divino che si manifesta tramite i fratelli e la Maestria, il velo che copriva il nostro cuore si svela, ritorna in noi il ricordo di Allah, e ci sciogliamo nella Sua comunità benedetta. Altro che teoria, la vita spirituale è reale! Wa AllaHu Alam, e Iddio è più Sapiente.

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